lunedì 24 agosto 2015

La Città senza Nome - Il ciclo di Cthulhu


La città senza nome
Lovecraft
Quando mi avvicinai alla Città senza Nome, capii che era maledetta. Viaggiavo in una vallata riarsa e terribile sotto la luna e, da lontano, la vidi sporgere stranamente al di sopra della sabbia così come parte di un cadavere sporgono da una tomba mal ricoperta.
La paura parlava dalle pietre consunte di quell’antica sopravvivenza del diluvio, di quell’antenata della piramide più antica; e un’aura invisibile mi respinse e mi ordinò di allontanarmi da quei segreti antichi e sinistri che nessun uomo dovrebbe mai vedere e che nessun altro uomo aveva mai osato vedere.
Remota, nel deserto dell’Arabia, si stende la Città senza Nome, sgretolata e diruta, le basse mura seminascoste dalla sabbia di innumerevoli ere. Doveva essere così prima che fossero gettate le fondamenta di Menfi, e quando ancora i mattoni di Babilonia non erano cotti. Non esiste alcuna leggenda tanto antica da darle un nome, o da ricordarla viva. Ma se ne sussurra accanto ai fuochi degli accampamenti, e le vecchie ne mormorano nelle tende degli sceicchi, cosicché tutte le tribù la evitano senza sapere assolutamente perché. Fu di quella città che Abdul Alhazred, il poeta pazzo, sognò la notte prima di creare il suo un spiegabile distico:
Non è morto ciò che può vivere in eterno,
E in strani eoni anche la morte può morire.
Avrei dovuto sapere che gli arabi avevano buone ragioni per evitare la Città senza Nome, la città di cui si parla in strani racconti ma che non era mai stata vista da nessun uomo vivente: eppure li sfidai e mi addentrai nella landa desolata e inesplorata con il mio cammello.
Io solo l’ho vista, ed è per questo che nessun altro volta ha un’espressione di paura così orrenda come il mio e nessun altro uomo è colto da un tremito tanto orribile quando il vento della notte fa sbattere le finestre.
Quando me la trovai davanti nella quiete spettrale di un sonno infinito, lei mi guardò, gelida nella luce di una luna fredda, al centro del calore del deserto. E, quando le restituii lo sguardo, dimenticai il mio trionfo nell’averla trovata, e mi fermai con il mio cammello ad aspettare l’alba.
Aspettai per ore, finché il cielo ad oriente di venne grigio e le stelle svanirono, e quindi il grigio divenne una luce rosata bordata d’oro. Udii un lamento, e vidi una tempesta di sabbia agitarsi tra le pietre antiche, sebbene il cielo fosse limpido e le vaste distese del deserto immobili. Poi, d’un tratto, al di sopra dell’orizzonte, si alzò una striscia ardente di sole, visibile attraverso la piccola tempesta di sabbia che si stava allontanando.
Nel mi ostato di eccitazione, immaginai che da remote profondità arrivasse un clangore a salutare il disco fiammeggiante, così come Momnon lo saluta dalle rive del Nilo. Le orecchie mi fischiarono, e l’immaginazione mi si accese mentre guidavo lentamente il cammello lungo la distesa di sabbia, verso quel luogo sconosciuto; quel luogo che io solo tra i vivi ho visto.
Vagai tra le informe fondamenta delle case, senza trovare né scultura né un’iscrizione che parlasse di quegli uomini, se uomini erano, che costruirono quella città e vi dimorarono ere prima. L’antichità del posto era malsana, e desiderai ardentemente di incontrare qualche segno del fatto che la città fosse stata veramente edificata dal genere umano. Le rovine avevano proporzioni e dimensioni che non mi piacquero.
Avevo con me parecchi attrezzi, e scavai molto all’interno delle mura degli edifici distrutti; ma procedevo lentamente, e non scoprii nulla di significativo. Quando la notte e la luna tornarono, sentii un vento gelido che portò una nuova paura, cosicché non osai restare nella città. E, quando uscii dalle vetuste mura per andare a dormire, una piccola tempesta di sabbia si raccolse alle mie spalle: gemeva e soffiava sulle pietre grigie, sebbene la luna fosse luminosa e la maggior parte del deserto immobile.
Mi svegliai all’alba da sogni orribili, mentre le orecchie mi fischiavano come per un scampanio metallico. Vidi il sole trapelare rosso tra le ultime folate di una piccola tempesta di sabbia che si librava sulla Città senza Nome , e sottolineava la tranquillità del resto del paesaggio. Ancora una volta mi avventai entro quelle rovine incombenti che si gonfiavano sotto la sabbia come un orco sotto una coperta, e di nuovo scavai alla vana ricerca dei resti di quella razza dimenticata.
A mezzogiorno mi fermai e, nel pomeriggio, passai molto tempo a rintracciare le mura, le strade antiche, e i profili degli edifici semidistrutti. Mi accorsi che la città era stata veramente potente, e mi chiesi le fonti della sua grandezza. Immaginai tutti gli splendori di un’età così lontana che la Caldea non la ricordava, e pensai a Sarnath la Condannata, che si ergeva nella terra di Minar quando il genere umano era giovane, e ad Ib, che fu scolpita nella pietra grigia prima della nascita del genere umano.
D’improvviso mi imbattei in un luogo dove il fondo roccioso si alzava ripido dalla sabbia a formare un basso dirupo; e lì vidi con gioia un’apparente promessa di altre tracce di quel popolo antidiluviano. Tagliate rozzamente sulla parete del dirupo, c’erano le inconfondibili facciate di parecchi piccoli edifici o templi di forma tozza. Al loro interno potevano essere conservati molti segreti di ere troppo remote per essere calcolate, sebbene le tempeste di sabbia avessero già da lungo tempo cancellato ogni incisione che fosse stata all’esterno.
Vicino a me, molto in basso e coperte di sabbia, c’erano delle buie aperture, ma io ne liberai una con la vanga e strisciai all’interno, portando una torcia per illuminare qualsiasi mistero vi fosse celato. Quando fui dentro, vidi che la caverna era veramente un tempio, e scorsi chiari segni della razza che lì era vissuta e vi aveva celebrato i riti prima che il deserto fosse un deserto. Vi erano altari primitivi, colonne e nicchie, tutti stranamente bassi; e, sebbene non vedessi né sculture né affreschi, c’erano molte pietre singolari che erano state scolpite con mezzi artificiali per rappresentare dei simboli.
La bassezza della stanza scavata nella roccia era molto strana, visto che potevo a stento stare in ginocchio; ma lo spazio era tanto vasto che la torcia ne illuminava solo una parte alla volta. Rabbrividii stranamente nel vedere alcuni degli angoli più lontani; perché certi altari e erte pietre alludevano a riti di una natura terribile, rivoltante e inesplicabile, e mi spinsero a chiedermi che genere di uomini avesse potuto costruire e frequentare un tempio simile. Quando vidi tutto quello che conteneva la caverna, strisciai di nuovo fuori, avido di scoprire che cosa potevano offrire i templi.
La notte si era ormai avvicinata, a mele cose tangibili che avevo visto resero la curiosità più forte della paura: perciò non fuggii dalle lunghe ombre formate dalla luna che mi avevano atterrito quando avevo visto per la prima volta la Città senza Nome.
Nella luce del crepuscolo sgomberai un’altra apertura e, con una nuova torcia, strisciai all’interno; trovai altre pietre e simboli vaghi, sebbene nulla di più definito del contenuto dell’altro tempio. La stanza era altrettanto bassa. Ma molto meno ampia, e finiva in un passaggio strettissimo stipato da reliquie oscure e misteriose. Stavo curiosando intorno a quelle reliquie, quando un rumore di vento e il mio cammello ruppero il silenzio, e mi spinsero fuori per vedere che cosa avesse spaventato l’animale.
La luna splendeva vivida sulle rovine primitive, e illuminava una densa nube di sabbia che sembrava sospinta da un vento forte ma calante, proveniente da qualche punto lungo il dirupo che mi stava davanti. Capii che era stato quel vento gelido e sabbioso a disturbare il cammello, ed ero in procinto di condurlo in un posto meglio riparato, quando mi capitò di alzare gli occhi e notare che non c’era vento sulla cima del dirupo.
Questo mi stupì e mi spaventò, ma immediatamente ricordai gli improvvisi venti locali che avevo già visto e udito all’alba e al tramonto, e reputai che fosse un fenomeno normale. Decisi che proveniva da qualche fessura nella roccia che si apriva su una caverna, e guardai la sabbia smossa per rintracciare la fonte del vento.
Ben presto mi accorsi che proveniva dall’apertura nera di un tempio che si trovava ad una grande distanza da me, a sud, quasi fuori dalla mia vista. Avanzai allora a fatica lottando contro la soffocante nube di sabbia verso quel tempio che, quando mi avvicinai, si rivelò più grande degli altri e mostrò un’entrata molto meno ostruita dalla sabbia disseccata.
Sarei entrato se la forza terrificante del vento ghiacciato non fosse stata sul punto di spegnere la torcia. Sgorgava violentemente da quella scura entrata, fischiando stranamente mentre increspava la sabbia e si stendeva tra le misteriose rovine. Ben presto scemò, e la sabbia divenne sempre più immobile, finché tutto non fu nuovamente in pace; ma una presenza sembrava aggirarsi fra le pietre spettrali della città e, quando guardai la luna, l’astro sembrò tremolare come se fosse stato riflesso in acque agitate. Provavo una paura indescrivibile, ma non sufficiente a lenire la mia sete di meraviglie per cui, non appena il vento scomparve completamente, entrai nella oscura caverna da cui ero uscito.
Quel tempio, come avevo immaginato dall’esterno, era più grande di quelli che avevo già visitato; ed era presumibilmente una grotta naturale, visto che serviva da passaggio per i venti provenienti da qualche zona aldilà. Lì potevo stare in posizione eretta, ma notai che le pietre e gli altari erano bassi come quelli degli altri templi. Sulle pareti e sul tetto vidi per la prima volta delle tracce dell’arte pittorica di quella razza antica: strane spirali di colore che erano sbiadite o sgretolate; e, su due degli altari, vidi con eccitazione crescente un intrico di incisioni curvilinee di ottima fattura.
Quando alzi in alto la torcia, mi parve che la forma del tetto fosse troppo regolare per essere naturale, e mi chiesi a che cosa avessero lavorato prima quei tagliatori di pietra preistorici. La loro perizia in ingegneria doveva essere grande.
Poi, una vampata più luminosa di quella bizzarra fiamma mi rivelò ciò che stavo cercando: l’apertura su quegli abissi remoti da cui provenivano i venti improvvisi; e mi senti svenire quando vidi che era un’entrata, piccola e palesemente artificiale, tagliata nella solida roccia.
Vi infilai la torci, e vidi un tunnel nero con il tetto che si inarcava basso su una rozza rampa in discesa di gradini piccolissimi, numerosi e ripidi. Vedrò sempre quei gradini nei miei sogni, perché venni a sapere che cosa significavano. In quel momento, a malapena sapevo se definirli gradini o semplici appigli in una discesa precipitosa.
La mia mente turbinava di folli pensieri, e le parole e gli avvenimenti dei profeti arabi sembravano attraversare il deserto, dalle terre che gli uomini conoscono alla Città senza Nome che gli uomini non osavano conoscere. Ma esitai solo per un istante prima di attraversare il portale per cominciare a scendere cautamente lungo il ripido passaggio, con i piedi di traverso, come su una scala a pioli.
Solo nelle terribili visioni delle droghe e del delirio,qualcun altro può fare una discesa simile alla mia. Lo stretto passaggio scendeva al’infinito come uno spaventoso pozzo infestato, e la torcia che tenevo alta al di sopra della testa, non riusciva ad illuminare le ignote profondità verso cui strisciavo.
Persi il conto delle ore e dimenticai di consultare l’orologio, sebbene avessi paura al pensiero della distanza che stavo percorrendo. C’erano cambiamenti di direzione e di ripidità; e, una volta, arrivai ad un passaggio lungo, basso e piano, dove dovetti strisciare contorcendomi, con i piedi in avanti, sul fondo roccioso, tenendo la torcia tesa al di sopra della testa. Quel posto non era abbastanza alto per starci in ginocchio.
Dopo quel passaggio c’erano altri ripidi scalini, e stavo ancora scendendo in quell’abisso senza fine, quando la torcia morente si spense. Non penso che me ne accorgessi subito perché, quando me ne accorsi, la reggevo ancora al di sopra del capo come se fosse accesa. Ero completamente preso da quell’impulso per lo strano e l’ignoto, che mi aveva fatto diventare un esploratore della terra e un cercatore di luoghi remoti, antichi e proibiti.
Nel buio mi passarono rapidamente nella mente frammenti della ia adorata raccolta di sapere demoniaco; frasi di Alhazred l’arabo pazzo, brano degli incubi apocrifi di Damascius, e versi infami del delirante Image du Monde di Gauthier de Metz. Ripetei bizzarre frasi, e mormorai di Afrasiab e dei demoni che vagano con lui nell’Oxus. Poi pronuncia mille volte, monotonamente, una frase di uno dei racconti di Lord Dunsany: «Le irriverberate tenebre dell’abisso. Quando infine la discesa divenne incredibilmente ripida, recitai cantilenando delle frasi di Thomas Moore, finché ebbi paura di recitarli ancora:
Un serbatoio di tenebre, nere
Come i calderoni delle streghe quando sono pieni
Di droghe lunari distillate nelle eclissi,
chino per vedere se il piede poteva passare
lungo quel baratro, vidi, al di sotto,
fin dove arrivava lo sguardo,
le pareti lisce e nere come vetro,
come se fossero state appena verniciate
di quella pece scura che il Regno della Morte
getta sulle rive fangose...
Il tempo aveva ormai cessato di esistere quando i miei piedi toccarono di nuovo un piano orizzontale, e mi trovai in un luogo lievemente più alto delle stanze dei due templi più piccoli, ormai rimasti ad una distanza incalcolabile al di sopra di me. Non riuscivo a stare in piedi, ma solo in ginocchio, e nel buio mi trascinai e strisciai qui e là, a casaccio.
Ben presto capii che mi trovavo in uno stretto passaggio sulle cui pareti si allineavano casse di legno con la parte anteriore di vetro. Quando in quel luogo paleozoico ed abissale avvertii al tatto materiali quali il vetro ed il legno lucidato, rabbrividii all’idea delle possibili implicazioni. Le casse si trovavano lungo ciascuna parete del passaggio ad intervalli regolari, ed erano oblunghe e disposte orizzontalmente, spaventosamente simili a bare nella forma e nelle dimensioni. Quando cercai di muoverne due o tre per un esame ulteriore, scoprii che erano saldamente assicurate.
Capii che il passaggio era lungo, sinuoso, e che saliva tanto rapidamente che sarebbe stato terribile avere degli occhi fissi su di me nell’oscurità. Ogni tanto passavo da una parte all’altra per capire che cosa mi circondava e per essere certo che le pareti e le file di casse continuavano ancora. L’uomo è così abituato a visualizzare, che io quasi dimenticai il buio, e immaginai l’interminabile corridoio adorno di vetro e legno nella sua monotonia come se lo vedessi. E poi, in un attimo di emozione indescrivibile, lo vidi.
Non saprei quando esattamente la mia fantasia si fuse con la visione reale; ma, davanti a me, comparve un chiarore graduale e , all’improvviso, capii che vedevo i vaghi profili del corridoio e delle casse, rivelati da una ignota fosforescenza sotterranea. Per un breve istante tutto fu esattamente come l’avevo immaginato, visto che il chiarore era molto debole; ma, quando continuai ad avanzare meccanicamente, incespicando, verso una luce più forte, capii che la mia fantasia era stata debole.
Quel luogo non era un rudere primitivo come i templi della città in superficie, ma il monumento di un’arte magnifica ed esotica. Disegni e pitture ricchi, vivaci, bizzarri, formavano uno schema continuo di pittura murale, le cui linee e colori andavano aldilà di ogni descrizione. Le casse erano di uno strano legno dorato, con la parte anteriore di un vetro raffinato, e contenevano forme mummificate di creature che superavano in bizzarria i sogni più caotici degli uomini.
Comunicare un’idea di quelle mostruosità è impossibile. erano della famiglia dei rettili: le linee del corpo facevano pensare a volte al coccodrillo, a volta alla foca, ma più spesso a nulla di cui avessero mai sentito parlare il naturalista e il paleontologo. Nelle dimensioni si avvicinavano ad un uomo di bassa statura, e le zampe anteriori terminavano con dei piedi delicati e ben formati, stranamente simili a mani e dita umane.
Ma la cosa più strana di tutte erano le teste, che presentavano un contorno che sfidava tutti i principi noti della biologia. A niente quagli esseri potevano essere comparati: in rapida successione li confrontai al gatto, al bulldog, al mitico satiro, e all’essere umano. Nemmeno Giove aveva una fronte così colossale e sporgente, ma le corna, l’assenza di naso e le mandibole da alligatore, mettevano quelle cose al di fuori di tutte le categorie stabilite.
Riflettei un attimo sulla realtà di quelle mummie, con il sospetto che si trattasse di idoli artificiali; ma ben presto decisi che erano veramente una specie paleogena che doveva aver vissuto quando la Città senza Nome era viva. A coronare il loro aspetto grottesco, la maggior parte era sfarzosamente avvolta di stoffe preziosissime, e carica di ornamenti d’oro, di pietre preziose e di ignori metalli scintillanti.
L’importanza di quelle creature striscianti doveva essere stata enorme, perché occupavano il primo posto tra i bizzarri disegni alle parti e del soffitto affrescati. Con una perizia ineguagliabile, l’artista le aveva ritratte in un loro mondo, in cui avevano città e giardini fatti per adattarsi alle loro dimensioni. Non potevo fare a meno di pensare che la loro storia in immagini era allegorica: forse illustrava i progressi della razza che li aveva adorati. Quelle creature – mi dissi – erano per gli uomini della Città senza Nome quello che la lupa era per Roma, o quello che un animale-totem è per una tribù di indiani.
Mantenendo questo punto di vista, potei seguire a grandi linee la meravigliosa epopea della Città senza Nome; il racconto di una potente metropoli costiera che aveva dominato il mondo prima che l’Africa emergesse dal mare, e delle sue lotte quando il mare si era ritirato e il deserto aveva avanzato nella fertile vallata in cui sorgeva. Vidi le sue guerre e i suoi trionfi, i suoi problemi e le sue sconfitte, e in seguito la sua terribile lotta contro il deserto quando migliaia di suoi abitanti – lì rappresentati allegoricamente da rettili grotteschi – furono costretti ad aprirsi la strada tra le rocce in un modo stupefacente e a scendere nell’altro mondo di cui i profeti avevano loro parlato. Era tutto vivido, bizzarro e realistico, e le connessioni con la spaventosa discesa che avevo compiuto erano innegabili. Riconobbi persino i passaggi.
Mentre strisciavo lungo il corridoio verso la luce più intensa, vidi le frasi successive di quell’epopea dipinta: la partenza della razza che aveva dimorato nella Città senza Nome e nella vallata intorno per dieci milioni di anni. La razza il cui corpo era riluttante a lasciare scenari che il corpo conosceva fin da quando essa aveva abbandonato la vita nomade nella giovinezza della Terra e aveva tagliato nella roccia vergine quelle reliquie primitive che non aveva mai cessato di adorare.
Quando la luce fu più forte, studiai le pitture più da vicino e, ricordando che gli strani rettili dovevano rappresentare gli uomini sconosciuti, riflettei sui costumi della Città senza Nome. Molte cose erano particolari e inspiegabili. La civiltà, che comprendeva un alfabeto scritto, era apparentemente arrivata ad un livello superiore a quello raggiunto dalle civiltà, incommensurabilmente più tarde, dell’Egitto e della Caldea: eppure c’erano strane omissioni. Non riuscii, ad esempio, a trovare nessuna pittura che raffigurasse la morte o le usanze funebri, tranne quelle in relazione alle guerre, alla violenza e alle calamità; e mi meravigliai della reticenza mostrata nei riguardi della morte naturale. Era come se avessero nutrito come dolce illusione una idea di immortalità.
Ancora più vicino alla fine del passaggio, erano dipinte scene di grande pittoricità e stravaganza: vedute contrapposte della Città senza Nome nel suo abbandono e nel suo crescente decadimento e del paradiso strano e nuovo verso il quale la razza si era aperta la strada attraverso la roccia. In quelle vedute, la città e la vallata deserta erano mostrate sempre alla luce della luna, con una nube dorata che si librava sulle mura crollate e faceva intravedere la splendida perfezione dei tempi passati, ritratta spettralmente ed elusivamente dall’artista. Le scene paradisiache erano fin troppo stravaganti per poter essere ritenute reali: ritraevano un modo etereo, nascosto di giorno, pieno di città gloriose, coline e vallate diafane.
Alla fine mi parve di vedere i segni di un certo decadimento artistico. I dipinti erano meno abili, e molto più bizzarri perfino delle più strane delle scene precedenti. Sembravano documentare una lenta decadenza dell’antica razza, accompagnata da una ferocia crescente verso il mondo esterno da cui era stata cacciata nel deserto. Le forme delle persone  sempre rappresentate dai rettili sacri – sembravano deperire gradualmente, sebbene il loro spirito, che veniva mostrato mentre si librava sulle rovine alla luce della luna, ne acquistasse in grandezza.
Sacerdoti emaciati, rappresentati da rettili in tuniche riccamente adorne, maledicevano l’aria del mondo superiore e tutto quello che la respirava; e una terribile scena finale rappresentava un uomo dell’aspetto primitivo, forse un pioniere dell’antica Irem, la Città delle Mille Colonne, dilaniato da membri della razza più antica. Ricordai quanto gli arabi temessero la Città senza Nome, e fui felice che, tranne che in quel luogo, le pareti e i soffitti grigi fossero spogli.
Nel guardare quello spettacolo rappresentato da quella storia murale, mi ero avvicinato verso la fine del passaggio dal basso soffitto, e notai un’apertura da cui proveniva quella fosforescenza luminosa. Strisciai fino ad essa e gridai stupefatto nel vedere che cosa c’era aldilà: infatti, invece di altre caverne più luminose, c’era solo un vuoto illimitato di radiazioni uniformo, come ci si può immaginare di vedere guardando in basso dalla cima del monte Everest un mare di nebbia illuminato dal sole. Alle mie spalle c’era un passaggio così basso che non riuscivo a stare in piedi; e, davanti a me, c’era un infinito fulgore sotterraneo.
Dal passaggio partiva verso l’abisso una ripida rampa di gradini – gradini numerosi e piccoli, simili a quelli dei assaggi bui che avevo attraversato – ma, dopo pochi centimetri, i vapori luminosi nascondevano ogni cosa. Spalancato contro la parete sinistra del passaggio c’era il massiccio battente di una porta d’ottone, incredibilmente spesso e decorato con magnifici bassorilievi che, se chiuso, poteva isolare completamente tutto il mondo di luce dalle caverne e dalle gallerie rocciose.
Guardai i gradini e, per il momento, non osai avventurarmici. Toccai quindi la porta aperta d’ottone, ma non riuscii a spostarla. Poi mi stesi prono sul pavimento di pietra, con la mente infiammata da pensieri prodigiosi che nemmeno la stanchezza mortale poteva spegnere.
Mentre giacevo immobile a occhi chiusi, deciso a riflette, molte cose che avevo notato superficialmente negli affreschi mi ritornarono in mente con una gravità nuova e terribile: scene che rappresentavano la Città senza Nome nei giorni del suo splendore, la vegetazione della vallata che la circondava, e le terre lontane con le quali i suoi mercanti facevano commerci.
L’allegoria delle creature striscianti mi sorprendeva per la sua preminenza assoluta, e i chiesi perché fosse stata seguita così rigidamente in una storia naturale di simile importanza. Negli affreschi, la Città senza Nome era raffigurata in proporzioni adatte ai rettili. Mi chiesi quali fossero state le sue vere proporzioni e la sua magnificenza, e riflettei per un attimo su certe stranezze che avevo notato nelle rovine.
Pensai con meraviglia alla bassezza dei primi templi e dei corridoi sotterranei, che erano stati, senza dubbio, scavati in quel modo tenendo conto delle divinità-rettili che vi venivano adorate, e nonostante il fatto che costringessero gli adoratori a strisciare. Forse il rito vero e proprio esigeva che i fedeli strisciassero per imitare le creature. Nessuna teoria basata sulle credenze religiose, però, poteva facilmente spiegare perché i tunnel piani in quella spaventosa discesa dovessero essere bassi come i templi, o più bassi, visto che non ci si poteva nemmeno stare in ginocchio.
Quando pensai alle creature striscianti, le cui orrende forme mummificate mi erano così vicine, provai una nuova ondata di paura. Le associazioni mentali erano strane, e rifugii dall’idea che, tranne per il povero primitivo dilaniato nell’ultimo dipinto, la mia era l’unica forma umana tra i molti resti e simboli di una vita antichissima.
Ma, come sempre nella mia esistenza strana e vagabonda, la meraviglia presto scacciò la paura; infatti, l’abisso luminoso e ciò che poteva contenere erano un problema degno del più grande esploratore. Non potevo dubitare che un mondo soprannaturale di mistero fosse in fondo a quella rampa di strano e piccoli gradini, e speravo di trovare quei ricordi umani che il corridoio dipinto non mi aveva fornito. Gli affreschi dipingevano città incredibili e vallate, in quel regno inferiore, e la mia fantasia indugiò sulle rovine ricche e colossali che mi aspettavano.
Le mie paure, in realtà, riguardavano il passato più che il futuro. Nemmeno l’orrore fisico della mia posizione in quello stretto corridoio di rettili morti e di affreschi antidiluviani, miglia e miglia al di sotto del mondo che conoscevo e davanti a un altro mondo di luce e nebbia misteriose, poteva eguagliare il terrore mortale che provavo davanti all’antichità abissale della scena e al suo spirito.
Un’antichità così vasta che ogni misurazione era insufficiente, e sembrava spiare malignamente dalle pietre primitive e dai templi tagliati nella roccia della Città senza Nome, mentre le ultime stupefacenti mappe degli affreschi mostravano oceani e continenti che l’uomo ha dimenticato: solo qui e lì c’era qualche profilo familiare.
Nessun uomo sa cosa può essere successo nelle ere geologiche dopo che gli affreschi erano cessati e la razza che odiava la  morte aveva ceduto con rabbia al decadimento. Una volta quelle caverne e il luminoso regno aldilà avevano brulicato di vita; ora ero io solo con quei vividi resti, e tremai al pensiero delle innumerevoli ere durante le quali quei resti avevano vegliato silenziosi e soli.
D’un tratto arrivò un’altra ondata di quella paura acuta che mi aveva assalito a intermittenza fin da quando avevo visto per la prima volta la terribile vallata e la Città senza Nome sotto una fredda luna e, malgrado la stanchezza, mi sorpresi a cercare freneticamente di sedermi per scrutare lungo il corridoio buio i tunnel che salivano al mondo esterno.
Le mie sensazioni erano simili a quelle che mi avevano fatto evitare di notte la Città senza Nome, ed erano inspiegabili per quanto erano acute. Dopo un momento, però, provai uno spavento ancora più grande a causa di un rumore ben definito; il primo che aveva rotto il silenzio assoluto di quelle profondità sepolcrali. Era un gemito profondo, basso, come se provenisse da una folla lontana di anime dannate, e proprio dalla direzione in cui stavo guardando. Ilsuo volume crebbe rapidamente, finché echeggiò lugubremente nel basso corridoio e, nello stesso momento, notai una corrente di aria fredda che similmente diveniva sempre più forte affluendo dai tunnel e dalla città soprastante.
Il tocco di quell’aria parve restituirmi l’equilibrio mentale, poiché ricordai immediatamente le improvvise folate di vento che si erano alzate intorno all’imboccatura dell’abisso ad ogni alba e a ogni tramonto, e una di esse mi aveva, del resto, svelato i tunnel nascosti. Guardai l’orologio e vide che l’alba era prossima, perciò raccolsi tutte le mie forze per resistere al vento violento che stava tornando alla sua caverna d’origine così come ne era uscito la sera. La mia paura si attutì nuovamente, visto che i fenomeni naturali tendono a disperdere le considerazioni sull’ignoto.
Sempre più selvaggiamente, il vento stridente e lamentoso della notte si riversava nell’abisso. Ricaddi a terra e mi afferrai invano alla roccia per paura di essere trascinato di peso attraverso la porta aperta nell’abisso fosforescente. Non mi ero aspettato una tale violenza e, quando mi accorsi che il mio corpo stava scivolando veramente verso l’abisso, fui assalito da mille nuovi terrori, nati dall’ansia e dall’immaginazione.
La malevolenza della corrente d’aria destò in me fantasie incredibili; ancora una volta mi paragonai con raccapriccio all’unica immagine umana in quello spaventoso corridoio, quell’uomo che era stato dilaniato dalla razza senza nome poiché, nel diabolico ghermire delle correnti turbinanti, si sentiva una rabbia vendicativa, tanto più forte quanto più era impotente.
Credo che verso la fine gridai freneticamente – ero impazzito – ma, se pure lo feci, le mie grida si persero in quella babele infernale di ululati di vento.
Cercai di strisciare verso l’invisibile corrente omicida, ma non riuscii nemmeno a mantenermi fermo e venni spinto lentamente e inesorabilmente verso il mondo ignoto. Infine, la ragione dovette abbandonarmi completamente, e comincia a farfugliare ossessivamente il distico inspiegabile dell’arabo pazzo Alhazred, che sogno la Città senza Nome:
Non è morto ciò che può vivere in eterno,
e in strano eoni anche la morte può morire.
Solo i tristi e pensierosi dei del deserto sanno che cosa avvenne veramente, quali lotte sostenni nel buio e quale Abaddon mi riportò in vita, vita durante la quale dovrò sempre ricordare e rabbrividire al vento della notte fino a che l’oblio – o qualcosa di peggio – mi chiamerà. Mostruosa, innaturale, colossale, era quella cosa, troppo lontana da tutte le idee dell’uomo per essere creduta, tranne che nelle silenziose e maledette ore della notte quando non si riesce a dormire.
Ho detto che la violenza del vento impetuoso era infernale – demoniaca – e che le sue voci erano orribili per la malvagità repressa di un’eternità desolata. Ben presto quelle voci, per essendo confuse davanti a me, al mio cervello pulsante sembrarono assumere una forma articolata. E laggiù, nella tomba di esseri antichi morti da innumerevoli eoni, situata leghe al di sotto del mondo degli uomini illuminato dalla luce dell’alba, sentii le maledizioni e le proteste spettrali di demoni dalle strane lingue.
Mi voltai, e vidi stagliarsi contro l’etere luminoso dell’abisso, quello che non avevo potuto vedere nel buio del corridoio. Un’orda da incubo di diavoli, diavoli distorti dall’odio, agghindati grottescamente, semitrasparenti, diavoli su una razza sulla quale non c’era da sbagliarsi: erano i rettili striscianti della Città senza nome.
E, quando il vento cessò, sprofondai nel buio spettrale delle viscere della terra; perché, dietro l’ultima creatura, la grande porta di ottone si chiuse con un assordante clangore musicale i cui echi salirono fino al mondo lontano per salutare il sole sorgente così come Memmon lo saluta dalle rive del Nilo.
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