venerdì 28 agosto 2015

Da Altrove - Lovecraft


Tremendo e inimmaginabile era il cambiamento verificatosi nel mio amico Crawford Tillinghast. L'ultima volta che lo avevo visto, due mesi e mezzo prima, mi aveva rivelato lo scopo delle sue ricerche fisiche e metafisiche: e alle mie proteste, alle mie rimostranze tra l'incredulo e lo sgomento aveva risposto con uno scoppio d'ira spaventoso, cacciandomi di casa.
Avevo saputo che trascorreva la maggior parte del tempo nell'attico che fungeva da laboratorio scientifico e che lavorava in continuazione alla sua maledetta macchina elettrica, mangiando poco e vietando l'ingresso persino ai servitori; ma non pensavo che il breve periodo di dieci settimane potesse sfigurare a tal punto un essere umano. Non è piacevole vedere un uomo robusto diventare l'ombra di se stesso, ma è molto peggio se la pelle cascante si tinge d'un grigio malsano, se gli occhi accesi di una luce sospetta si infossano nelle orbite e la fronte si copre di rughe; a Tillinghast tremavano anche le mani. Se a tutto questo si aggiunge una disgustosa sciattezza, il più completo disordine nei vestiti, un arruffo di capelli neri che alla radice cominciavano a diventare bianchi e una lanugine di barba candida su una faccia un tempo rasata, l'effetto complessivo può essere traumatico.
Questo era l'aspetto di Crawford Tillinghast la sera in cui un messaggio quasi indecifrabile mi riportò in casa sua dopo settimane di esilio; questo era lo spettro che tremando, e con una candela in mano, mi aprì la porta. Notai che lanciava un'occhiata furtiva alle sue spalle, come se temesse che qualcosa di pauroso e invisibile si annidasse nell'antica casa solitaria dietro Benevolent Street. Per Crawford Tillinghast era stato un errore imbarcarsi negli studi di scienza e filosofia; questi argomenti dovrebbero essere lasciati a indagatori più freddi e impersonali, perché all'uomo emotivo o d'azione offrono un dilemma comunque tragico: disperazione se fallisce nelle ricerche e terrori irriferibili, oltre ogni immaginazione, se invece riesce.
Tillinghast era già stato vittima una volta del fallimento e si era chiuso in solitudine e malinconia, ma ora sapevo, con un brivido che mi scuoteva nel profondo, che era vittima del successo. Dieci settimane prima, quando mi aveva rivelato ciò che stava per scoprire, lo avevo avvertito e messo in guardia. Ma allora era eccitato e il sangue gli era montato alla testa, e con un tono di voce acuto e innaturale (benché pedante come al solito) aveva ribattuto:
«Che cosa sappiamo del mondo e dell'universo che ci circonda? I nostri canali sensoriali sono pochissimi e degli oggetti che ci stanno intorno abbiamo una percezione quanto mai ristretta. Vediamo le cose come ci è permesso di vederle e non possiamo farci nessuna idea della loro realtà assoluta. Con cinque debolissimi sensi pretendiamo di capire un cosmo infinito ed estremamente complesso; eppure, esseri dotati di sensi più forti, più profondi o in grado di operare su un'altra banda, non solo vedrebbero le cose in modo diverso da noi, ma sarebbero in grado di percepire e di studiare mondi di vita, di energia e materia che sono a portata di mano e che le nostre facoltà non ci permettono di scoprire. Ho sempre creduto che questi mondi inaccessibili esistano tutto intorno a noi, e adesso credo di aver trovato il modo di abbattere la barriera. Non sto scherzando: entro ventiquattr'ore la macchina che vedi accanto al tavolo produrrà onde capaci di agire su organi di senso che possediamo senza rendercene conto, e che sopravvivono in atrofia o come vestigia rudimentali. Le onde ci consentiranno di vedere cose che nessuno ha mai visto, cose ignote a ciò che noi consideriamo vita organica. Finalmente capiremo perché i cani abbaiano nel buio e che cosa fa rizzate le orecchie ai gatti dopo mezzanotte. Vedremo tutto questo e altro ancora, come non è mai capitato a nessun essere vivente. Sfideremo il tempo, lo spazio, le dimensioni, e senza muovere un dito guarderemo al fondo della creazione».
Di fronte a queste affermazioni avevo protestato energicamente: conoscevo Tillinghast quanto bastava per essere spaventato più che non divertito; ma in quel momento si comportava come un fanatico e mi aveva cacciato di casa. Non che il fanatismo fosse scomparso improvvisamente, ma adesso il desiderio di parlare era più forte e lo aveva spinto a scrivermi un biglietto con una grafia che stentavo a riconoscere.
Entrato nel rifugio dell'amico che si era trasformato nella larva di se stesso, fui contagiato dal terrore che trasudava da ogni ombra. Idee e convinzioni che mi aveva comunicato dieci settimane prima sembravano prender corpo nel buio che si allargava oltre il debole cerchio della candela, e la voce roca, alterata del mio ospite mi diede un tuffo al cuore. La presenza dei servitori mi avrebbe tranquillizzato, ma seppi con dispiacere che se ne erano andati tre giorni prima. Mi parve strano che il vecchio Gregory, se non altri, avesse abbandonato il padrone senza avvertirmi: in fondo ero un amico di famiglia, ed era stato Gregory a darmi notizie di Tillinghast dopo che questi mi aveva cacciato di casa. Ma presto paure e timori passarono in secondo piano, lasciando il posto al fascino della curiosità.
Potevo a malapena supporre che cosa Tillinghast volesse da me, ma non c'erano dubbi che dovesse condividere con qualcuno un segreto o una scoperta portentosa. In un primo momento avevo protestato per le sue indagini arrischiate nel regno dell'imponderabile; ora che in qualche modo era riuscito, condividevo il suo trionfo, per terribile che sembrasse il prezzo della vittoria.
Seguii la candela tremante in mano a quella caricatura d'uomo; l'elettricità era stata tolta e quando chiesi spiegazioni mi fu detto che c'era una precisa ragione.
«Sarebbe troppo... non mi azzarderei nemmeno io» continuò la mia guida, quasi fra sé.
L'abitudine di borbottare tra i denti mi stupì più di ogni altra, perché non era da lui parlare da solo. Entrammo in laboratorio e vidi l'odiosa macchina elettrica, che brillava di una luminosità violetta e poco promettente. Era collegata ad una potente batteria chimica, ma in quel momento non riceveva corrente perché, durante i primi esperimenti, ricordavo di averla sentita vibrare e ronzare quando era in funzione. In risposta alla mia domanda l'inventore mormorò che l'alone violaceo da me osservato non era un fenomeno elettrico, o almeno non del tipo comune. Mi fece sedere accanto alla macchina, in modo che si trovasse alla mia destra, poi girò una manopola sotto un imponente ammasso di lampadine.
L'apparecchio emise i soliti rumori, che alla fine si trasformarono in un fischio e una vibrazione così pacata da distinguersi appena dal silenzio. Nel frattempo la luce era aumentata e si era abbassata di nuovo, assumendo un colore pallido che era in realtà un fantastico miscuglio di colori indefinibili e indescrivibili.
Tillinghast mi teneva d'occhio e notò la mia espressione stupita. «Sai che cos'è quello?» sussurrò. «È l'ultravioletto.» Alla mia sorpresa fece una strana risata. «Pensavi che l'ultravioletto fosse invisibile, e in circostanze normali è così... Ma ora puoi vederlo, insieme a una quantità di altre cose.
«Stammi a sentire! Le onde emesse dalla macchina risvegliano in noi mille sensi addormentati, sensi che abbiamo ereditato fin dal principio più remoto dell'evoluzione, quando da semplici elettroni ci siamo trasformati in esseri organici. Io ho visto la verità e intendo mostrartela. Ti chiedi che aspetto abbia? Te lo dirò.»
A questo punto Tillinghast sedette di fronte a me, soffiò sulla candela e mi guardò tenebrosamente negli occhi. «Gli organi di senso che ci sono rimasti - le orecchie innanzitutto, penso - saranno sufficienti a registrare la maggior parte delle nuove sensazioni, perché sono strettamente collegati con gli organi addormentati. E poi, ce ne sono altri. Hai mai sentito parlare della ghiandola pineale? Mi fanno ridere gli endocrinologi, stolti quanto i parvenus freudiani... quella ghiandola è il più importante degli organi di senso, e io l'ho scoperto. La si può paragonare a una vista molto più perfetta e trasmette al cervello sensazioni visive. Se sei un individuo normale, è così che li riceverai... Voglio dire i messaggi dall'altrove.»
Guardai l'immenso attico con la parete meridionale inclinata, e illuminato da radiazioni che l'occhio normalmente non può vedere. Gli angoli più lontani erano avvolti nell'ombra e, nel complesso, il luogo era permeato da un alone d'irrealtà che lo rendeva misterioso e invitava l'immaginazione a simbolismi e fantasticherie.
Durante il silenzio di Tillinghast immaginai di essere in un vasto e incredibile tempio di dèi morti da millenni, un vago edificio d'innumerevoli colonne di pietra nera che da un pavimento di lastre umide s'innalzavano a grandissima altezza, oltre il limite della mia vista. Per un po' l'immagine fu molto vivida e gradualmente fece posto a una più orrenda percezione: quella di una solitudine completa e assoluta nello spazio infinito, senza luce né suono.
Sembrava esserci il vuoto e nient'altro, e dietro la spinta di un terrore infantile estrassi la pistola che portavo sempre con me dopo l'agguato che avevo subito nei quartieri orientali di Providence. Poi, dalle plaghe più remote della lontananza si manifestò debolmente il suono. Era debolissimo, vibrante in maniera sottile, inconfondibilmente musicale. Conteneva una nota di straordinaria crudeltà e il suo impatto costituiva una delicata tortura per il corpo.
Provai sensazioni simili a quelle che si sentono quando si graffia involontariamente del vetro e nello stesso tempo avvertii un soffio freddo che veniva dal punto in cui si originava il suono, per poi sorpassarmi. Mentre aspettavo, col fiato corto, mi resi conto che tanto il suono quanto il gelido spiffero aumentavano; immaginai di essere legato a due rotaie, sul percorso di una gigantesca locomotiva che avanzava.
Rivolsi la parola a Tillinghast e non appena lo ebbi fatto le sensazioni svanirono: vedevo solo l'uomo, la macchina lucente e il laboratorio fiocamente illuminato. Tillinghast sbirciava la mia pistola con un sorriso disgustoso, ma dalla sua espressione capii che aveva visto e sentito le stesse cose che avevo visto io, se non di più. Riferii, in un sussurro, le esperienze che avevo fatto e lui mi chiese di restare tranquillo e ricettivo.
«Non muoverti» mi avvertì. «Alla luce di questi raggi noi possiamo essere visti oltre che vedere. Ti ho detto che i domestici se ne sono andati, ma non come. È stata quella stupida della governante: ha acceso le luci al piano di sotto nonostante l'avessi avvertita di non farlo, e i fili della corrente hanno captato delle vibrazioni affini. Dev'essere stato spaventoso... ho sentito le urla fin quassù, anche se a mia volta vedevo e sentivo cose che venivano da un'altra direzione. In seguito ho trovato mucchi di stracci e di vestiti in tutta la casa, una cosa spaventosa. I vestiti della signora Updike erano vicino all'interruttore dell'ingresso, ecco come ho capito che era stata lei. Sono stati liquidati tutti, ma finché non ci muoviamo siamo relativamente al sicuro. Ricordati che abbiamo a che fare con un mondo orribile nel quale siamo praticamente indifesi... Stai fermo!»
Lo shock della rivelazione e di quell'ultimo ordine ebbero l'effetto di paralizzarmi. Nel terrore, la mia mente si aprì di nuovo alla percezione di ciò che Tillinghast aveva chiamato "altrove". Mi sembrava di essere al centro di un vortice di suoni e movimenti, con immagini confuse davanti ai miei occhi. Vidi i contorni confusi della stanza, ma da un punto nello spazio si riversò una colonna brulicante di ombre o macchie irriconoscibili, che penetrarono nel tetto solido da un punto alla mia destra. Poi vidi di nuovo l'effetto-tempio, ma stavolta le colonne svettavano in un aereo mare di luce che proiettava un fascio accecante verso la colonna di ombre intravista prima.
La scena era un vero e proprio caleidoscopio: nella confusione di apparizioni, suoni e non meglio identificati stimoli sensoriali ebbi l'impressione di stare per dissolvermi, o comunque di perdere la forma solida.
Ricorderò sempre un lampo ben definito che mi permise di osservare, per un momento, una chiazza di cielo notturno nient'affatto familiare e illuminato da sfere lucenti in movimento; sfere che, allontanandosi, formavano una costellazione o galassia di forma precisa. La forma era quella, distorta, del viso di Crawford Tillinghast. Un'altra volta sentii grandi cose animate che mi sfioravano e di tanto in tanto camminavano o scivolavano attraverso il mio corpo, che avrebbe dovuto essere solido.
Mi accorsi che Tillinghast le osservava, come se potesse vederle con sensi più allenati. Ricordai quello che aveva detto della ghiandola pineale e mi chiesi che cosa vedesse col suo occhio preternaturale.
D'improvviso anche a me sembrò di possedere una vista "aumentata" e sul caos di luci e ombre si impose un'immagine che, per quanto vaga, aveva una sua permanenza e consistenza. Era in un certo senso familiare, perché la parte insolita era sovrimposta alla scena terrestre come un fotogramma cinematografico proiettato su un sipario. Vedevo il laboratorio nell'attico, la macchina elettrica, la figura spiacevole di Tillinghast di fronte a me; ma di tutto lo spazio che non fosse occupato da oggetti familiari, non una sola particella era vacante. Forme indescrivibili, vive o no, parevano mescolate in un disordine disgustoso e intorno agli oggetti familiari c'erano mondi interi di entità ignote, sconosciute. Sembrava che le cose familiari entrassero nella composizione di oggetti sconosciuti, e viceversa. Fra gli esseri viventi c'erano grandi mostruosità color inchiostro, tremanti, che pulsavano flaccide al ritmo delle vibrazioni della macchina. Erano in quantità disgustosa e con orrore notai che si ammassavano le une sulle altre, che erano semifluide e in grado di passare attraverso i rispettivi organismi e quelli che noi riteniamo corpi solidi. Non stavano mai ferme ma parevano fluttuare nell'aria con uno scopo maligno; a volte si divoravano a vicenda e lo scatto dell'attaccante era fulmineo, mentre la vittima scompariva in un baleno.
Tremando, capii che cosa avesse annientato i disgraziati servitori; e più osservavo il mondo sconosciuto che ci si muoveva intorno, più ero incapace di non pensare alle creature. Ma Tillinghast mi aveva tenuto d'occhio e ora disse: «Le hai viste? Le hai viste? Ti rendi conto delle cose che ti nuotano e sbattono intorno in ogni momento della vita? Vedi che razza di creature riempiono l'aria fresca, il cielo azzurro? Non sono riuscito ad abbattere la barriera, non ti ho mostrato mondi che nessuno aveva mai osservato?».
Così gridava nell'orribile caos, il volto stravolto e offensivamente proteso verso il mio. Gli occhi erano pozzi di fiamma e mi fissavano con quello che ora sapevo essere odio sconfinato. La macchina ronzava fastidiosamente.
«Credi che siano quelle le creature che hanno liquidato i domestici? Idiota, ma se sono innocue! Eppure i servi non ci sono più... Hai cercato di fermarmi, mi hai scoraggiato quando avevo bisogno di tutto l'incoraggiamento possibile; temevi la verità cosmica, maledetto vigliacco, ma adesso ti tengo! Che cosa ha fatto piazza pulita dei domestici? Che cosa li ha fatti urlare in quel modo? Non lo sai, eh? Lo scoprirai presto. Guardami, stai a sentire quello che dico... Pensi che esistano realmente cose come il tempo e le dimensioni? T'immagini che forma e materia abbiano un significato? Ti dico che sono sceso in abissi che il tuo cervellino non può nemmeno immaginare! Ho visto oltre i confini dell'infinito e ho evocato demoni dalle stelle... Ho chiamato a raccolta le ombre che volano fra i mondi per seminare morte e follia... Lo spazio appartiene a me, mi senti? Adesso le "cose" mi danno la caccia. Cose che divorano e dissolvono. Ma io so come eluderle e fare in modo che prendano te... come hanno preso i servi. Tremi, amico mio? Ti avevo detto che è pericoloso muoversi. Finora ti ho salvato, dicendoti di star fermo, perché vedessi quello che c'era da vedere e mi ascoltassi. Se ti fossi mosso, ti sarebbero saltate addosso da tempo. Non preoccuparti, non ti faranno male. Non hanno fatto male ai miei domestici, è stato lo spettacolo a farli urlare in quel modo. I miei cuccioli non sono carini, perché vengono da posti dove i canoni estetici sono... molto diversi. La dissoluzione è pressoché indolore, te lo assicuro, ma voglio che tu li veda. Io li ho quasi visti, però sapevo dove fermarmi. Non sei curioso? L'ho sempre saputo che non sei un vero scienziato! Tremi, eh? Tremi dall'ansia di vedere le cose peggiori che ho scoperto? Allora perché non ti muovi? Sei stanco, amico mio, ma non preoccuparti, perché loro stanno arrivando... Guarda, guarda, maledetto! Ce l'hai proprio sulla spalla sinistra...»

Quello che mi resta da dire è poco e credo vi sia noto dai resoconti dei giornali. La polizia sentì uno sparo nella vecchia casa Tillinghast e ci trovò insieme, lui morto ed io svenuto. Mi arrestarono perché tenevo la pistola fra le dita, ma fui rilasciato appena si resero conto che Tillinghast era morto per un colpo apoplettico e che i miei colpi erano diretti alla dannata macchina che giaceva, fracassata, sul pavimento del laboratorio. Non raccontai granché di quello che avevo visto perché temevo che il coroner non mi avrebbe creduto, ma dal riassunto che feci il dottore dedusse che il pazzo vendicativo e omicida era riuscito a ipnotizzarmi. Vorrei crederci. Se potessi ignorare quello che so dell'aria e del cielo intorno a me, i miei nervi scossi ne avrebbero un gran beneficio. Mi sembra di non essere mai solo, mai rilassato, e quando sono stanco ho l'orribile sensazione di essere inseguito. Quello che m'impedisce di credere al dottore è un fatto molto semplice: che la polizia non ha mai trovato i corpi dei servitori assassinati, secondo la versione ufficiale, da Crawford Tillinghast.
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