sabato 22 agosto 2015

Dagon di Lovecraft

Dagon
Il ciclo di Cthulhu
Howard Phillips Lovecraft
Ho una spiegazione per il sonno sceso su di me.
SHAKESPEARE
Scrivo in uno stato di tensione insostenibile. Fra poco sarà l’alba e, allora, io non esisterò più. Privo d’ogni mezzo, privo della droga che – sola – mi ha consentito di fino ad oggi di sopravvivere ai miei incubi, non mi rimane altro modo per sottrarmi al tormento: mi getterò dall’alta finestra di questa soffitta, nella squallida strada sottostante.
Tuttavia, io non sono un debole. È vero, sono schiavo della morfina, ma non sono un degenerato. Quando avrete finito di leggere quello che, tra i brividi della febbre, sto scrivendo, forse riuscirete a comprendere le mie ragioni.
La mia vicenda ebbe inizio in una delle zone più aperte e meno frequentate dell’immenso Oceano Pacifico, quando la  nave mercantile inglese sulla quale ero imbarcato venne catturato da un vascello corsaro tedesco. La Guerra Mondiale era allora ai suoi inizi, e il comportamento sul mare dei tedeschi non era ancora arrivato al livello di atrocità che raggiunse più tardi. Noi prigionieri fummo perciò trattati con ogni riguardo, e la sorveglianza cui eravamo sottoposti era così allentata che, dopo soli cinque giorni dalla cattura, riuscii a fuggire.
Mi ritrovai solo, su una piccola imbarcazione, in mezzo all’oceano sconfinato. Avevo però con me cibo e acqua sufficienti per un lungo periodo. Per molti giorni andai alla deriva, senza avere la minima idea della mia posizione. Possedevo soltanto poche rudimentali nozioni di navigazione: bastanti, tuttavia, per presumere, mediante l’osservazione del sole e delle stelle, che mi trovassi di poco a sud dell’equatore. Della longitudine non avevo la minima idea, né riuscivo a scorgere nessuna isola o litorale.
Non c’era una sola nuvola in cielo e continuavo a farmi trascinare dalle correnti sotto il sole incandescente, sperando nel passaggio di una nave, o che il mare mi gettasse sulla spiaggia di qualche terra abitabile. Ma i giorni si susseguivano senza che riuscissi a vedere né navi né terre, e cominciavo a disperare, solo com’ero in quell’immensa, azzurra, ondulante uniformità.
Quando si verificò il mutamento stavo dormendo profondamente. Ciò che successe in realtà non lo saprò mai: da giorni ero preda di un sopore continuo, popolato di sogni spaventosi. In un momento di veglia, mi scoprii quasi sommerso dalla distesa minacciosa di una palude grigiastra, che si allargava tutt’intorno, a perdita d’occhio, in monotone ondulazioni. A breve distanza da me, era incagliata la mia barca.
Sarebbe naturale attendersi che, di fronte ad un cambiamento di scena così straordinario ed inaspettato, la mia prima reazione fosse di stupore. Invece, più che meravigliato, mi sentii preda si un orrore indescrivibile.
Nell’aria velenosa e nel suolo putrescente, avvertivo infatti qualcosa di sinistro che mi ghiacciava il sangue. L’ambiente era reso fetido dalle carcasse di pesci in decomposizione, e da altre cose meno riconoscibili che affioravano dalla melma immonda di quella palude senza fine. Nessun suono giungeva alle mie orecchie, e null’altro si vedeva se non la sconfinata distesa di fango nerastro. Ma era proprio quel silenzio totale e l’assoluta uniformità di quel paesaggio ad opprimermi con un senso di orrore e di disgusto.
Il sole sfolgorava in un cielo simile ad una lastra di piombo nella sua crudezza senza nubi. Sembrava quasi che mi riflettesse la palude d’inchiostro nella quale mi trovavo prigioniero.
Strisciando faticosamente, raggiunsi la mia barca incagliata e, mentre avanzavo, mi convinsi che c’era solo una spiegazione per lo stato in cui mi trovavo: a causa di qualche misterioso sommovimento vulcanico, una parte del fondo marino era risalita in superficie, riportando alla luce regioni che per innumerevoli milioni di anni erano rimaste celate nella tenebra insondabile degli abissi oceanici. Tanto vasta era l’estensione della nuova terra sollevatasi sotto di me, che non mi era possibile, per quanto affinassi l’udito, cogliere neppure il più tenue e lontano rumore del mare.
Melma e cose morte si stendevano a perdita d’occhio, e non c’erano uccelli marini in cerca di preda fra le carcasse.
Cupo e pensoso rimasi per ore rannicchiato nella mia barca. Il suo scafo, coricato su un fianco, mi offriva riparo dai raggi cocenti del sole che si spostavano nel cielo. A mano a mano che il giorno si dipanava, il terreno intorno a me perdeva un poco della sua viscosità, promettendo di indurirsi abbastanza perché, di lì a poco, potessi camminarvi senza fatica. Quella notte dormii solo a tratti, e il giorno successivo preparai un fagotto da portare sulle spalle, carico di provviste e d’acqua, deciso a mettermi in cammino in cerca del mare scomparso e di un improbabile soccorso.
Il terzo giorno, il terreno era abbastanza solido da potervi camminare sopra agevolmente. Il fetore del pesce decomposto mi nauseava, ma non era certo quella la maggiore delle mie preoccupazioni. Mi incamminai dunque verso una destinazione ignota e, per tutto il giorno, continuai ad avanzare faticosamente verso ovest, diretto ad una lontana altura che, come avevo scoperto, era l’unico rilievo che dominasse quel deserto ondulato.
Scesa la notte, sostai e ripresi il cammino il giorno seguente, sempre nella medesima direzione. L’altura, tuttavia, non sembrava più vicina di quando l’avevo scorta la prima volta. Era ormai quasi notte quando riuscii a raggiungere la base; e allora mi si rivelò molto più alta di quanto non mi fosse apparsa quando la osservavo da lontano, nella piattezza uniforme del terreno. Troppo esausto per tentare la scalata, mi sistemai per passare la notte, e mi addormentai.
Non so perché i miei incubi fossero così orrendi, so soltanto che la falce della luna calante non era ancora alta nel cielo, verso ovest, quando mi svegliai madido di sudore gelato, deciso a non riprendere sonno. Le visioni che avevo avuto erano troppo spaventose perché potessi sopportarle di nuovo, solo in quella desolazione tenebrosa.
Il chiarore della luna, tuttavia, mi fece riprendere animo, e allora compresi che ero stato uno sciocco a voler viaggiare di giorno. Senza il fulgore ardente del sole, il cammino sarebbe stato più facile. In quel momento, infatti. Mi sentivo più riposato e disposto a tentare la scalata che i aveva scoraggiato al tramonto. Ripresi quindi il viaggio, diretto verso la cima dell’altura.
L’uniformità monotona di quella distesa ondulata era per me, come ho detto, fonte di un orrore sottile ed indefinibile. Ma ben più grande fu il mio orrore quando, giunto sulla vetta e gettato uno sguardo in basso dall’altro versante, mi trovai sospeso su un baratro immenso, i cui recessi profondi e macchiati di tenebra la luna non era ancora arrivata a illuminare. Mentre cercavo di affondare lo sguardo in quel caos oscuro, mi sentii orrendamente solo sull’orlo estremo del mondo. Nel mio terrore, lampeggiarono improvvisi ricordi del Paradiso perduto, il poema di Milton letto in gioventù, e della scalata di Satana attraverso i regni delle tenebre, immensi e senza forma.
Quando la luna fu alta nel cielo, mi accorsi però che il terreno ai miei piedi non era scosceso come avevo immaginato. Nella parte iniziale, molte sporgenze rocciose fornivano punti di appoggio per un’eventuale discesa: poi, ad un certo punto, il pendio diminuiva. Spinto da un impulso che si sottrae ad ogni analisi, cominciai la discesa del primo tratti, il più difficile, per fermarmi sulla china meno ripida che seguiva.
Lì, la mia attenzione, fu catturata da una paurosa massa che, dalla parte opposta dell’abisso, si alzva dritta per una trentina di metri.
Si trattava di un monolito biancastro che risplendeva nel chiarore della luna nuova in ascesa nel cielo.
Era soltanto un gigantesco blocco di pietra: mi rassicurai in fretta. Ma non  potevo non riconoscere che la sua sagoma e la sua collocazione non erano in alcun modo ascrivibili all’opera della sola natura. Un’osservazione più attenta suscitò in me sentimenti diversi e inesprimibili: dovetti arrendermi all’idea che, malgrado le sue dimensioni ciclopiche e la sua posizione in un abisso che si era spalancato sul fondo del mare agli albori della Terra, quel monolito titanico aveva senza dubbio conosciuto l’opera dell’uomo, e l’adorazione religiosa di popoli ignoti.
Sbigottito, e tuttavia pervaso da quel brivido di piacere che ben conoscono gli scienziati e gli archeologi di fronte all’imponderabile, scrutai con maggiore attenzione ciò che mi stava attorno. La luna, che ormai era quasi giunta allo zenith, faceva piovere una luce vivida e irreale sopra i picchi torreggianti che sovrastavano la voragine, permettendomi di scorgere, sul fondo, un’ampissima distesa d’acqua che si allargava in un senso e nell’altro, quasi lambendomi i piedi sul pendio in cui mi trovavo, e bagnando con piccole onde la base del titanico monolito al di là della voragine.
Sulla superficie dell’immensa pietra potevo ora distinguere alcune iscrizioni delle rozze figure scolpite. Le scritte erano in geroglifici che mi risultavano ignoti, ma che in un certo senso erano riconoscibili, perché si rifacevano a simbolismi figurativi dal valore universali. Tra forme confuse, scorgevo le immagini di pesci, anguille, polipi, crostacei, molluschi, balene ed esseri simili. Altre incisioni, però, delineavano creature marine ignote al nostro mondo. creature le cui forme in decomposizione – mi resi conto – io avevo osservato nella palude di melma nera sorta dal fondo dell’oceano.
Furono i bassorilievi, tuttavia, ad esercitare su di me il fascino maggiore. Perfettamente visibili grazie alla loro smisurata grandezza, una serie di sculture sull’altra riva esibivano forme che avrebbero suscitato l’invidia di Gustave Doré. Forse ( ma non ne sono sicuro), volevano raffigurare degli uomini; più probabilmente , una specie particolare di uomini. Erano creature ritratte mentre nuotavano come pesci nelle profondità di qualche grotta marina, o mentre rendevano devoto omaggio ad altari monolitici sommersi anch’essi dalle acque.
Il loro aspetto non oso descriverlo. Edgar Allan Poe o Bulwer Lytton non avrebbero saputo immaginare nulla di più grottesco: figure nel loro insieme ancora diabolicamente umane, malgrado le mani ed i piedi palmati, le labbra orribilmente rigonfie e flaccide, gli occhi vitrei e sporgenti, ed altre caratteristiche ancora più orribili da ricordare. Inoltre – fatto curioso – le loro raffigurazioni erano del tutto sproporzionate rispetto all’ambiente: una di esse, per esempio, era rappresentata nell’atto di uccidere una balena che appariva poco più grande di lei.
Il loro aspetto grottesco e le loro dimensioni bizzarre non mi sfuggirono; conclusi, tuttavia, che si trattava senza dubbio delle divinità immaginarie di qualche comunità primordiale ignorata da tutti, i cui ultimi discendenti erano scomparsi dal nostro pianeta migliaia di anni prima che nascesse il progenitore dell’Uomo di Piltdown o dell’Uomo di Neanderthal.
Ero perso su fantasticherie su quel passato così remoto da superare tutte le più ardue teorie antropologiche, immerso nella luce lunare che creava bizzarri riflessi sull’acqua silente, quando, d’improvviso, la vidi.
Con un solo lieve risucchio a testimonianza della sua emersione, la cosa incredibile scivolò fuori dall’acqua tenebrosa davanti ai miei occhi. Titanica e repellente, la mostruosa creatura si lanciò verso il monolito, poi lo cinse con le sue gigantesche braccia ricoperte di squame, curvando la testa orribile e emettendo urla ritmate.
Fu in quel momento, credo, che caddi in preda alla follia.
Della mia frenetica risalita su per il pendio roccioso, e del mio viaggio nel delirio verso la barca incagliata, rammento ben poco. Credo di ricordarmi che cantai a lungo, e risi convulsamente quando non mi riuscì più di cantare, ho la vaga reminescenza di una grande tempesta scoppiata poco dopo che ebbi raggiunto la barca. So di certo che udii grandi fragori di tuono, e gli altri ululati che la natura leva al cielo nei suoi momenti più selvaggi.
Quando emersi dalla tenebra, mi ritrovai in una stanza d’ospedale a San Francisco, dove ero stato portato da una nave americana che aveva avvistato la mia barca in mezzo all’oceano.
A quanto pare, nel delirio avevo parlato molto, ma nessuno, ovviamente, aveva prestato soverchia attenzione a ciò che dicevo. Di maremoti o altri sconvolgimenti tellurici nella zona del Pacifico in cui ero stato raccolto, i miei salvatori non sapevano nulla. Né io ritenni opportuno ripetere anche da sveglio ciò che senza dubbio avevo già raccontato durante il delirio: nessuno, peraltro, mi avrebbe creduto. Un giorno, venni in contatto con un etnologo famoso, e gli feci alcune domande sull’antica leggenda filistea di Dagon, il Dio-Pesce. Ma mi resi conto subito che lo studioso non era in gradi di uscire dal ristretto campo delle curiosità puramente libresche, e non spinsi oltre l amia indagine.
È di notte che vedo quella creatura orrenda, specie quando la una è falcata. Ho cercato soccorso nella morfina, ma la droga mi ha donato soltanto un sollievo temporaneo. Alla fine, non ho ottenuto altro risultato che aggiungere la sua schiavitù a quella del mostruoso ricordo.
Ormai, non mi resta che porre la parola fine a tutto ciò, dopo aver avuto i coraggio di scrivere quanto ho visto per l’informazione – o il divertito disprezzo – dei miei simili.
Mi domando spesso se non può essere stata tutta un’allucinazione, la conseguenza di una febbre provocata dal sole ardente mentre deliravo nella barca, preda delle correnti. Me lo chiedo: ma, sempre, l’incubo mi risponde di no, rinnovandosi ogni volta più orrendamente vivido.
Non posso pensare all’oceano senza rabbrividire all’idea delle creature senza nome, simili a noi, che in questo medesimo istante strisciano e si dibattono nel fango dei suoi abissi; che adorano con riti blasfemi i loro alieni idoli di pietra, o sono intente a scolpire i propri ripugnanti ritratti su sommersi obelischi di granito verdastro. Penso al giorno, forse vicino, in cui le loro gigantesche braccia squamose si leveranno dai flutti per trascinare sul fondo, nei loro artigli immondi, quanto resta dell’insignificante genere umano sfibrato dalla guerra. Qual giorno, forse, i continenti stessi si inabisseranno e il fondo oscuro dell’oceano salirà alla luce in un cataclisma cosmico.
La mia fine è giunta. Sento un rumore sordo alla porta, come se un’norme mano viscida stesse raspando contro di essa... Ma quella mano, mio Dio, non mi troverà...
La finestra, la finestra!

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