venerdì 28 agosto 2015

Polaris - Lovecraft


Dalla finestra settentrionale della mia camera brilla di luce arcana la Stella Polare. Brilla nelle lunghe ore d'incubo della notte, e in autunno, quando il vento del nord soffia minaccioso e gli alberi dalle foglie rosse accanto alla palude sussurrano sotto una falce di luna fino alle ore piccole, io siedo accanto alla finestra e fisso la stella.
Col passare delle ore la splendida Cassiopea si abbassa nel cielo, mentre il Gran Carro si alza dietro gli alberi ammantati di vapori che non smettono di agitarsi nel vento della notte. Poco prima dell'alba Arturo ammicca rossastra sul cimitero che sovrasta la collina e la Chioma di Berenice si accende fantastica, in lontananza, verso il misterioso oriente. Ma la Stella Polare ghigna sempre dallo stesso punto della volta nera, sinistra come un occhio folle che guardi in continuazione e tenti di trasmettere uno strano messaggio, senza riuscire a ricordare quale: sa soltanto che un tempo il messaggio c'era. A volte, quando il cielo è coperto, riesco a riposare. Ricordo benissimo la notte della grande aurora, quando sulla palude giocavano i riflessi inquietanti della luce demoniaca: per fortuna dopo i bagliori vennero le nuvole e io mi addormentai.
Fu sotto una falce di luna bianca che vidi per la prima volta la città. Sorgeva, immobile e sonnolenta, su un misterioso altopiano in mezzo a una depressione circondata da montagne fantastiche. Mura, torri, pilastri, cupole e strade erano di un marmo sepolcrale, e dalle strade si alzavano colonne che in cima avevano scolpite le immagini di uomini severi e barbuti. L'aria era calda e immobile e nel cielo, a dieci gradi scarsi dallo zenit, brillava l'occhio della Stella Polare. Guardai a lungo la città, ma il giorno non spuntava: e quando la rossa Aldebaran, che brillava bassa nel cielo senza tramontare, ebbe percorso un quarto dell'orizzonte, mi accorsi che nelle strade e nelle case c'erano luce e movimento. Individui stranamente vestiti, ma d'aspetto nobile e familiare, camminavano all'aperto e sotto la falce di luna discutevano la loro scienza in una lingua che io capivo, pur essendo diversa da tutte quelle che avevo conosciuto. E quando la rossa Aldebaran ebbe percorso più di metà dell'orizzonte, ci furono di nuovo oscurità e silenzio.
Al risveglio non ero più lo stesso: nei miei ricordi si era infiltrata la visione della città e nell'anima era sorto un altro e più vago richiamo, della cui natura non ero sicuro. Così, nelle notti nuvolose in cui riuscivo a dormire la città divenne una compagna familiare: ora la vedevo sotto la falce di luna bianca, ora sotto i raggi bollenti di un sole che non tramontava e che girava lentamente intorno all'orizzonte. E nelle notti chiare la Stella Polare ghignava su tutto. Poco a poco cominciai a chiedermi quale fosse il mio posto nella città sul misterioso altopiano, in mezzo alle fantastiche montagne. Se in un primo momento mi ero accontentato di guardare la scena come presenza in- corporea che tutto poteva vedere, adesso volevo definire il mio rapporto con essa e partecipare alla conversazione degli uomini che ogni giorno si riunivano in piazza.
Mi dissi: "Questo non è un sogno, perché con quali mezzi posso dimostrare la maggiore realtà dell'altra vita, quella nella casa di pietra e mattoni a sud della sinistra palude e del cimitero che sorge sulla collina, dove la Stella Polare brilla ogni notte dalla finestra di settentrione?".
Una sera che ascoltavo i discorsi nella piazza maggiore, quella adorna di molte statue, avvertii un cambiamento e mi resi conto, finalmente, di avere un corpo. Non ero più un estraneo nelle strade di Olathoë, la città che sorge sull'altopiano di Sarkis fra i monti Noton e Kadiphonek; ed era il mio amico Alos a parlare, con accenti che mi scaldarono il cuore perché venivano da un vero uomo e patriota.
Quella notte era arrivata notizia della caduta di Daikos e dell'avanzata degli Inuto: demoni tarchiati, gialli e senza pietà che cinque anni prima erano giunti dall'occidente sconosciuto per saccheggiare i confini del nostro regno e assediare le nostre città. Dopo aver preso le rocche fortificate che si trovavano ai piedi delle montagne, la loro meta era adesso l'altopiano: e senz'altro l'avrebbero spuntata se ogni cittadino non avesse resistito con la forza di dieci uomini. Perché quegli esseri tarchiati erano forti nell'arte della guerra e ignoravano gli scrupoli d'onore che impedivano a noi della razza di Lomar, alti e dagli occhi grigi, di abbandonarci a conquiste spietate.
Alos, il mio amico, era comandante di tutte le forze sull'altopiano e in lui il nostro paese riponeva le ultime speranze. In questa occasione ci parlò dei pericoli che dovevamo fronteggiare ed esortò gli uomini di Olathoë, i più coraggiosi fra i lomariani, di essere all'altezza dei loro antenati: i quali, costretti ad abbandonare la terra di Zobna e a fuggire a sud sotto l'incalzare della grande glaciazione (proprio come dovranno fuggire un giorno i nostri discendenti da Lomar), sconfissero e respinsero valorosamente i cannibali Gnophkeh, pelosi e dalle braccia lunghissime.
A me Alos rifiutò un incarico militare, perché ero debole e andavo soggetto a malori misteriosi quando venivo sottoposto a fatiche o altri sforzi. Ma i miei occhi erano i più acuti della città, nonostante le lunghe ore che dedicavo ogni giorno allo studio dei Manoscritti pnakotici e alle scienze dei Padri zobnariani; così il mio amico, che non voleva condannarmi all'inazione, mi premiò con un incarico che non era secondo a nessuno per importanza. Mi inviò sulla torre di Thapnen, a fare da osservatore per il nostro esercito. Se gli Inuto avessero cercato di raggiungere la fortezza dalla stretta gola che si apre dietro il monte Noton, e quindi di coglierci alla sprovvista, avrei dovuto mandare un segnale di fuoco e avvertire i soldati in attesa. In questo modo, la città sarebbe stata al sicuro dalla rovina immediata. Salii sulla torre da solo, perché ogni uomo di robusta costituzione era richiesto nelle gole sottostanti.
La mia mente era annebbiata dall'eccitazione e dalla stanchezza perché non dormivo da molti giorni, ma il mio proposito era fermo: non volevo tradire la patria Lomar e la città di marmo di Olathoë, che si trova fra i monti Noton e Kadiphonek. Ma dalla stanza più alta della torre vidi la falce di luna calante che, rossa e sinistra, tremava fra i vapori della lontana valle di Banof, e da un'apertura nel tetto vidi la pallida Stella Polare, guizzante come se fosse viva e col ghigno di un diavolo tentatore.
Credo che fosse il suo spirito a darmi il pessimo consiglio, cullandomi nel sonno traditore e consolandomi con una promessa musicale ripetuta infinite volte: 
Dormi, guardiano, dormi in fila
Per lunghi anni Ventiseimila,
Svegliati solo nel momento
Che brillerò nel firmamento
Proprio dove brillo adesso.
Tu nel ciel vedrai spuntare
Molte stelle da guardare;
E la calma ti daranno,
Dimenticare ti faranno:
Ma quando tornerò nella vecchia posizione
Il passato ti darà una bella lezione. 
Lottai inutilmente contro la sonnolenza, cercando di collegare queste strane parole con la conoscenza dei cieli che avevo acquisito dai Manoscritti pnakotici. Ma la testa mi girava ed era pesante, finché si abbassò sul petto e mi trovai immerso in un sogno: l'orribile Stella Polare ammiccava, attraverso una finestra, sugli orribili alberi di una palude onirica.
Sto ancora sognando. A volte, nella mia vergogna e disperazione, urlo nel sonno e supplico le creature irreali che vedo intorno a me di svegliarmi prima che gli Inuto riescano ad attraversare la gola del monte Noton e ad attaccare la città di sorpresa. Ma non ricevo che risate di scherno, mentre i nemici gialli e tarchiati ci sono forse addosso.

Ho fallito nel mio compito, ho tradito la marmorea città di Olathoë; mi sono mostrato indegno di Alos, mio amico e comandante, e ancora le ombre del sogno mi deridono. Dicono che la terra di Lomar esiste solo nelle mie fantasie notturne, che nelle regioni dove la Stella Polare brilla alta nel cielo e Aldebaran striscia lungo l'orizzonte non c'è altro che neve e ghiaccio da migliaia d'anni e che l'uomo non ci si è mai avventurato, a parte una razza di individui gialli e tarchiati che qui chiamano "esquimesi". E io mi tormento nel rimorso, desiderando ardentemente di poter salvare la città: ma ad ogni momento il pericolo cresce e io lotto invano per scuotermi di dosso il sogno innaturale di questa casa di pietra e mattoni, a sud della palude e del cimitero che sorge sulla collina. E la Stella Polare, malvagia e mostruosa, mi deride dalla volta nera, ammiccando orribilmente come un occhio folle che guarda, guarda in continuazione e cerca di trasmettere un messaggio misterioso; ma non ricorda quale, se non che una volta ce n'era uno.
Il Ciclo di Cthulhu e altri racconti di Lovecraft

Nessun commento:

Posta un commento